Tante idee per vivere al meglio le tue vacanze
Una vita da guardiano
Fra cunicoli e gallerie con le sentinelle del Barbellino: alle origini delle cascate del Serio
Guardando fuori dalla finestra si dovrebbe vedere tutto bianco. Invece
no, molte rocce affiorano ancora dalla neve perché le misere nevicate di questo inverno non sono riuscite ad ammantarle tutte.
Quassù, al cospetto della diga del Barbellino, in passato era però molto diverso. «Iniziava a nevicare a fine ottobre – ricordano nei loro racconti i guardiani più anziani – e a maggio potevi svegliarti alla mattina con enormi fiocchi che ancora cadevano dal cielo».
LA CASA IN QUOTA DEI GUARDIANI
Nella loro casetta in quota non manca nulla.
La sala da pranzo ha due finestre: una si affaccia sull’enorme muro della diga, mentre l’altra sulla mole ingombrante del Pizzo Coca, il “Re delle Orobie” con i suoi 3050 metri di altezza. Nella parte sinistra della stanza si trova invece il televisore. La sua utilità nel periodo estivo potrebbe risultare
superflua, non durante quello invernale quando il buio vince la sfida con le ultime luci del giorno magari accompagnato dal sibilo del vento che, a queste quote, può spazzare le creste per giorni interi.
Sopra il divano è appeso un quadretto che racconta la storia dei
guardiani. Vi sono infatti elencati tutti i nomi di coloro che nel corso
degli anni hanno prestato servizio come custodi della diga più grande
della bergamasca. Le imposte sulle finestre sono rigorosamente in ferro, un pezzo unico privo di pertugi per impedire alla neve trascinata dal vento di trovare un facile varco.
Sul fondo del corridoio si trova invece la rampa di scale che consente
di accedere alla stazione di arrivo della funivia utilizzata, anche d’inverno, per salire in quota. Gettando lo sguardo verso valle si può vedere uno dei tre pali su cui poggiano le funi. Poco oltre si apre un baratro, un burrone di oltre trecento metri dal quale precipitano le acque che danno origine alle cascate del Serio. In un’altra stanza si trova invece tutta la strumentazione, la parte tecnologica che consente di tenere costantemente monitorato l’impianto.
È da questa postazione che, cinque volte all’anno (quest’anno il numero di aperture non è ancora confermato), i guardiani manovrano lo scarico di mezzofondo per liberare i seimila litri di acqua al secondo che danno vita a
questo grandioso spettacolo.
Ogni mattina, senza soluzione di continuità, viene eseguita la visita ispettiva della diga. Come le marmotte, che in estate si sentono fischiare in lontananza, il guardiano si insinua in un complesso sistema di cunicoli e gallerie, uscendo parecchi minuti dopo sul versante opposto della montagna.
Con l’arrivo dell’estate si rivedranno in quota gli escursionisti, nonché i tanti animali che trascorrono la stagione avversa in luoghi più comodi. I “funamboli con gli zoccoli”, come qualcuno li ha battezzati, torneranno a sfidare la legge di gravità compiendo le loro acrobazie sul muro della diga.
ESPERIENZE SOSPESE
Sono stati 49 finora i guardiani che hanno prestato servizio al cospetto della diga del Barbellino. Bonacorsi Angelo di Valbondione è il più anziano di quelli rimasti e di aneddoti potrebbe raccontarne per ore. «Ho iniziato nel maggio del 1970 – esordisce – assieme all’amico Balicco Vincenzo. Andammo ad affiancare, tra gli altri, Morandi Romolo e Bonacorsi Guido che, se non ricordo male, furono i primi nel 1969 ad aprire le cascate. A Pianlivere si prendeva il carrello per salire in direzione del Pinacolo e poiché i telefoni non esistevano si comunicava con il macchinista a monte tramite segnali convenzionali. Sul lato destro delle rotaie erano infatti presenti dei pali in ferro che reggevano degli isolatori in porcellana su cui veniva ancorato un filo di rame. Ebbene, con una verga di legno (dotata di una terminazione in rame) si “batteva” su questo per far giungere il segnale in sala macchine: un colpo per fermare la corsa, due per avanzare, tre per tornare a ritroso. Durante la salita poteva anche capitare di scorgere qualche fungo nel bosco e allora si chiedeva lo stop del carrello per alcuni minuti (ma, in rispetto all’indole misteriosa dei fungaioli, questo Angelo lo ricorda sottovoce, ndr). In quota avevamo delle galline che mangiavano quanto avanzato dei pasti al rifugio Curò. Purtroppo non sempre facevano le
uova nelle loro cassette ma si nascondevano tra i pini mughi e, in quei casi, bisognava spiarle con il cannocchiale per scoprirne il nascondiglio»
L’esperienza indelebilmente stampata nella sua memoria è legata alle ore trascorse in funivia sopra le cascate del Serio, con oltre trecento metri di vuoto sotto il pavimento. «Era un pomeriggio di dicembre – ricorda – ma fortunatamente non aveva ancora nevicato. Alle 17 salimmo sulla funivia per tornare in paese: eravamo io, Rodari Attilio e Rodigari Vitale.
Poco dopo il cavalletto, e appena affacciati sul baratro delle cascate, questa si bloccò bruscamente ondeggiando per diversi secondi. Lo spavento fu enorme. Dopo lo smarrimento iniziale contattammo il macchinista con il telefono a manovella presente a bordo, il quale ci disse che aveva già provato a rimettere in moto ma senza esito». La macchina dei soccorsi si attivò da subito, vennero avvisati i capi e i tecnici che conoscevano l’impianto a fune per comprendere l’entità del guasto. «Il tempo passava, era buio pesto e la cabina spesso ondeggiava a causa del vento. Iniziavamo ad avere freddo e a bordo c’era una sola coperta che continuavamo a scambiarci a vicenda. Dopo un po’ ci dissero per telefono che quattro colleghi erano già partiti a piedi da Valbondione in direzione delle cascate del Serio con viveri e coperte. A quel punto, alla luce di un accendino, togliemmo dal cassone tutte le corde presenti iniziando a unirle tra loro nella speranza che giungessero fino a terra. Verso le 23 vedemmo le pile spuntare dal bosco e portarsi sotto di noi. Aprimmo quindi la botola sul pavimento per calare un’estremità, che fortunatamente li raggiunse. Avevano una ricetrasmittente e con la nostra di bordo dicemmo loro di appendere subito le coperte. Il recupero della corda non finiva più, furono attimi interminabili culminati dalla gioia di vedere spuntare dal buio l’enorme saccone.
Una volta svuotato lo calammo nuovamente per recuperare i viveri. Dopo mangiato ci accovacciammo in un angolo con la cabina che non smetteva di ondeggiare. In piena notte, verso le 4, squillò il telefono. “Siamo pronti a tirare” ci disse il macchinista.
Potete solo immaginare quale fu la nostra gioia nel sentire ripartire la funivia e vedere sempre più vicine le luci di Valbondione».
Testo e foto di Mirco Bonacorsi per VALSeriana & Scalve Magazine – primavera
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