Tante idee per vivere al meglio le tue vacanze
Un tè con il Principe
A Palazzo Fogaccia, nel cuore di Clusone, tra nobili, generali e papi
«La aspetto domani alle 15 per un tè».
Quando un invito così arriva da un Principe e sei cresciuta negli Anni ʼ90 a pane e Cenerentola, il pensiero non può che volare subito a zucche, topolini, carrozze e balli.
Con questo stato d’animo, e il solito look da ufficio (ben lontano dal bellissimo abito di Cenerentola) con scarpe argentate (la cosa più simile alla scarpetta di cristallo che ho trovato, perché diciamocelo, la scarpetta fa tutto), all’indomani sono all’esterno della cancellata, in una giornata di quelle che solo ottobre sa regalare e che fa sembrare Palazzo Fogaccia di Clusone un posto fatato.
Sono in leggero anticipo e la mia conoscenza di buone maniere in quanto a Prìncipi è alquanto risicata. «Devo aspettare le 15 in punto – mi chiedo – o alle 15 devo essere già seduta? Devo suonare il campanello o verranno ad aprirmi?»
Nel dubbio trascorro i minuti di vantaggio a rimirare la facciata e il giardino, appostata con la macchina fotografica, più simile a Robin Hood che a Cenerentola. L’orario è perfetto: il muro rustico della facciata sud dà il meglio di sé con il sole pomeridiano che evidenzia in un disegno preciso le pietre scure delle cornici delle finestre e dei portali. Mentre osservo le dieci aperture quadrate del primo piano, le grandi finestre del piano nobile, le aperture del terzo piano e il balconcino centrale che sembra dare il benvenuto ai visitatori, non posso fare a meno di tornare indietro nel tempo: me lo immagino qui, proprio nell’angolo di via Fogaccia, Giovan Battista Quadrio (figlio del Gerolamo che lavorò alla fabbrica del Duomo di Milano) nel 1692 a disegnare l’architettura del palazzo su richiesta del conte Vittorio Maria Fogaccia.
I rintocchi del campanile mi riportano alla realtà: non si arriva in ritardo da un Principe, non si sa mai, potrei trasformarmi in una zucca. Mi accoglie il custode e mi fa attendere nell’atrio.
Mi godo il momento: non è la prima volta che entro da questa porta, ma è la prima in cui posso ammirarlo completamente da sola. Ferma con il naso all’insù nell’ampio androne silenzioso mi sento ancora più piccola. Non è colpa delle scarpette argentate senza tacco, ma merito dell’imponenza della struttura Settecentesca che richiama una magnificenza sobria, elegante. Niente è eccessivo, tutto sembra al posto giusto per mettere in risalto le splendide vetrate e l’orologio a pendolo (è originale, a pietra, come scoprirò più tardi).
«Prego, entri pure» e mi ritrovo nel bellissimo salone, tra quadri di Querena, Carpinoni e Bettera, fotografie e libri che raccontano l’ultimo secolo di vita del palazzo. Il Principe Alberto Giovanelli mi aspetta davanti al quadro del Fassi che ritrae il nonno e io mi sento sempre più piccola, circondata da testimonianze del passato e del presente, sotto al soffitto affrescato che lascia a bocca aperta.
Lo smarrimento dura poco, perché la gentilezza e la galanteria con cui Giovanelli accoglie i propri ospiti riesce a far sentire a casa, (anzi, è il caso di dire “a palazzo”), chiunque varchi la soglia.
Iniziamo la nostra chiacchierata e non posso fare a meno di chiedermi se non sia proprio il Principe Azzurro quando mi offre un caffè, anziché un tè (che i Principi leggano nel pensiero?), e subito sono catapultata indietro di un secolo. «Per quasi cento anni il palazzo è stato oggetto di divisioni, in diversi ne reclamavano la proprietà. La spuntò Piero Fogaccia, avvocato di Bergamo, che tra il 1927 e il 1930 procedette alla ricostruzione, ma ci credi che glielo consegnarono completamente nudo? Lasciarono solo tre cose: il pendolo, un trumeau e il quadro del Paglia». Mi indica il quadro e non stento a capire il perché: l’opera di Francesco Paglia, allievo del Guercino, che raffigura una festa nel parco con il Conte Fogaccia e la sua famiglia occupa un’intera parete del salone, è monumentale e regala un’aria di festa alla stanza. Non proprio semplice da spostare e da collocare in un salotto sopra un divano, insomma.
Tra un sorso di caffè e un biscotto, il Principe continua il racconto della vita del palazzo che, mi dice, pochi sanno essere stato sede di un Ministero. «Per evitare i grandi centri, oggetto dei bombardamenti, tra il 1943 e il 1945 molti ministeri vennero trasferiti nelle piccole cittadine e qui arrivò quello delle Colonie. Io e mio fratello Carlo giocavamo lì – mi racconta mostrandomi una parte del bellissimo giardino – e spesso incontravamo i funzionari sullo scalone che porta alla galleria. Pensa che vent’anni dopo, a Roma, sono andato all’Eur per sbrigare alcune pratiche e mi ha accolto un signore anziano, molto distinto. Sente il mio nome e mi dice: «Il Principe Giovanelli? Lei è di Clusone!». Era uno dei funzionari del Ministero. Guarda come il Palazzo ha aiutato a far conoscere il nome di Clusone».
Crescere a Palazzo Fogaccia non è cosa da tutti, chissà come era il Natale da bambini in questo splendido salone. «Lì nel camino allestivamo un presepe bellissimo. Mio padre ha sempre avuto talento per la pittura e creava uno scenario splendido. Invece qui, dove sei seduta tu, mettevamo un abete altissimo. Chiudevamo le persiane per rispettare l’oscuramento e poi accendevamo le lucine. Era magico. Nel 1945 anche un generale tedesco ha voluto vedere la sala addobbata e sono andato lì – mi indica l’ingresso – a dargli il benvenuto. Sapevo il tedesco nonostante fossi un bimbo di 5 anni: la mia schwester parlava solo così, mentre i miei genitori parlavano in italiano (ovviamente), in inglese e in francese».
Rifletto sul fatto che sono seduta dove si sono seduti ministri, generali e principi. In centro a Clusone, non a Roma o a Venezia. «Non solo, cara. Anche un Papa. Roncalli era molto legato a Piero Fogaccia e in occasione della sua visita del 1957, quando era Patriarca di Venezia, venne a trovare mia zia, la Contessa Marietta, che gli offrì un banchetto sontuoso. Mica come ho fatto oggi io con te, molto di più. Immaginati: biscotti, torte, tè, caffè, tutto apparecchiato in modo sfarzoso per il Cardinale. Si sedettero lì davanti al quadro del Paglia e, ammirando quel banchetto, lui le disse: «Neh Marietta, non hai mica un bicchiere di vino rosso?».
Mi sembra di avere fatto un viaggio nella storia, oltre che nel palazzo, e se chiudo gli occhi riesco quasi a vedere la Contessa Franca Giulia Fogaccia, madre del Principe, su quella carrozza nera che ancora accoglie i visitatori all’ingresso, mentre si avventura verso la Presolana per portare un po’ di provviste ai partigiani che non avevano cibo. Ma il tempo corre e ci apprestiamo a salutarci.
«Mi tolga una curiosità. Da clusonese per me questo palazzo è quello che ti ricorda che è la tua città, che sei a casa. Ma per lei è casa davvero: come vive Palazzo Fogaccia il proprietario di Palazzo Fogaccia?» «Mi prenderai per matto ma io qui parlo con i miei antenati sai? Glielo dico sempre, non sono il proprietario, sono il custode di questo luogo, custodisco quello che loro hanno vissuto qui. Questo è il posto in cui ho trascorso momenti bellissimi da bambino e dove ora passo la maggior parte del mio tempo, quando non sono a Roma». Decido l’azzardo, timorosa della risposta: «Mi dica la verità, lei si sente più romano o più bergamasco?». Risponde senza esitazione: «Più clusonese».
Non ho più dubbi, è davvero il Principe Azzurro. E mentre mi accompagna all’uscita non posso fare a meno di guardare la carrozza e dire: «La ringrazio tanto, mi ha fatto sentire un po’ Cenerentola». E tutto mi sarei aspettata tranne che di sentirmi rispondere: «Ma hai portato anche Gas Gas e gli altri topolini?».
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Articolo di Martina BIFFI Per VALSeriana & Scalve Magazine
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