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Un bacio al cielo
I ricordi di mamma Luigina a dieci anni dalla tragedia che portò via Mario Merelli. “Salì su Everest e K2 con una caviglia rotta, ma non lo rivelò mai a nessuno”.
«Come le chiamate voi giornalisti le notizie grosse? Adesso gliene regalo una: questa cosa non la sa nessuno. Nella famosa spedizione del 2004, mio figlio Mario è salito sull’Everest e sul K2 con un piede rotto. Era orgoglioso di essere stato scelto fra i migliori alpinisti a livello nazionale, ma venti giorni prima di partire si era rotto una caviglia. Avevano paura che lo lasciassero a casa, ci disse di non farne parola con nessuno. “Non è niente”, ripeteva. Io però vedevo che gli faceva male, continuava a cambiare posizione: “Fa sito!”, mi diceva. Di nascosto, un amico lo portò da uno specialista a Bergamo, fece i raggi e venne fuori che un osso si era spostato. Il dottore gli disse che in quelle condizioni non sarebbe dovuto partire. Lui invece prese la macchina e andò dalla Gronell, la società che produceva scarponi d’alta quota, per farsi fare una protezione speciale, guardi, gliela faccio vedere».
Luigina è la mamma di Mario Merelli, l’indimenticabile alpinista bergamasco di Lizzola, che il 2 luglio avrebbe compiuto sessant’anni. Merelli, che aveva conquistato dieci 8.000 il 12 gennaio 2012 precipitò dalla Punta Scais, la montagna di casa. Mamma Luigina ha accettato di parlare con noi, accanto alla figlia Raffaella, e le siamo grati di questa fatica nel ricordare suo figlio.
«Pochi giorni prima della partenza fecero una presentazione della spedizione al Donizetti, c’era anche il ministro Alemanno. Gli alpinisti salirono sul palco e uno di loro si accorse che Mario camminava male, sudava e gli chiese cosa aveva. Lui rispose: “Ho preso una storta alzandomi dalla poltroncina”. Mario non si lamentava mai del dolore. Insomma, salì in cima all’Everest e arrivò a 8200 metri sul K2 con una caviglia rotta. Al K2 il Mondinelli mi ha raccontato che forse per la prima volta Mario si era davvero arrabbiato. Aveva portato tutto il materiale e il cibo al campo 3 e la sua tenda era stata svaligiata…».
«Mario era il mio terzo figlio, dopo la Raffaella e il Dino. Da bambino quando gli chiedevano: “Tu cosa vuoi fare da grande?”. Rispondeva: “Il Papa!”. “Ma se vuoi fare il Papa allora prima devi fare il prete”. E lui: “No, no, io voglio fare il Papa!”. Fin da piccolo era spericolato, praticava sport estremi e si faceva sempre male, una volta alla spalla, un’altra al collo. Il medico diceva: “È la crescita”. Ma mio marito Patrizio si arrabbiava ogni volta: “Ma quale crescita, tu non vedi che cosa fa tuo figlio, fa le capriole con gli sci!”. Io non l’ho mai sgridato perché era troppo furbo con me, mi guardava con i suoi occhioni e io mi scioglievo. Sta di fatto che ogni domenica si faceva male. C’era un dottore di Milano che veniva a riposarsi a Lizzola ed era diventato uno di famiglia: tutte le settimane doveva cucire qualcosa a Mario. Ma tanto era matto, tanto era affettuoso. Gli piacevano il contatto, l’abbraccio, il bacio, le coccole».
«L’ho mandato alla scuola alberghiera, contavamo su di lui per l’albergo Camoscio. Una volta sono scesa a Castione della Presolana a scuola perché sapevo che non era bravo. “Volevo chiedervi come va mio figlio”, dico ai professori. E loro: “È bravo, bravissimo”. Li interrompo: “Scusate, forse non avete capito: io sono la mamma di Merelli di Lizzola”. Mi guardano stupiti: “Ma certo, il Mario, è bravissimo”. Aveva cominciato a fare sul serio, ha frequentato il corso di cuoco e ha iniziato a farlo anche da noi su in albergo, era bravo anche a preparare, non solo a cucinare, ma pota non c’era mai. Abbiamo dovuto assumere una cuoca perché lui spariva continuamente, andava in moto, in bici, con gli sci. Arrivava il papà e chiedeva: “Dov’è?”. E io gli rispondevo che l’avevo mandato a prendere il pane o qualcos’altro, lo coprivo. Ma lui non c’era mai ad aiutare».
«Allora l’ho spedito in un albergo grande a Domodossola. Avrà avuto 22 o 23 anni. Ogni volta che partiva però, io volevo andare a vedere dov’era. E un giorno in macchina sono salita a Domodossola: praticamente gestiva l’albergo da solo. In cucina era bravissimo e non lo volevano più lasciar andare via: “Sa cosa abbiamo risparmiato di carne coi piatti che prepara lui?”. E io: “No, no, non ve lo lascio qui, mi serve a casa”. A un certo punto si era messo in testa di andare a lavorare sulle navi, ma non l’ho lasciato. L’ho tenuto io, ma scappava sempre. Il richiamo della montagna era troppo forte. Mio marito, però, che sapeva fare di tutto (quando l’ho sposato faceva il falegname) ha voluto che Mario lo affiancasse. E quando mio marito è morto, ha preso il suo posto. In albergo faceva tutto lui». «Col papà, che era guida alpina, fece la sua prima spedizione e si trovò bene. Poi è andato sempre più avanti. Avrei potuto fermarlo un po’, invece non l’ho mai fatto. A casa nostra si è mangiato pane e montagna, si parlava solo della montagna. Quando veniva il Carlo Nembrini, si sedevano davanti al camino e lui raccontava… Un giorno il papà, che doveva accompagnare dei clienti sul Chimborazo, la montagna più alta dell’Ecuador, gli chiese di andare con lui. Mario si illuminò: “Salgo con voi, poi io scendo col parapendio”. Un volo di circa 4 ore da 6.300 a 3.200 metri. Senonché, durante la discesa una bufera improvvisa lo scaraventò contro le rocce e si ruppe un braccio. Il papà non gliela lasciò passare: “Tu con quel coso lì hai chiuso”. L’anno dopo mio marito morì e Mario abbandonò il parapendio».
«Il lavoro in albergo diminuiva e lo trasformammo in bed&breakfast. Ma anche così c’erano periodi nell’anno in cui i turisti non salivano a Lizzola. Mario allora andò a fare i disgaggi, a rimuovere pietre e rocce pericolanti dalle pareti accanto alle strade e a montare le reti paramassi. Lavorava imbragato e col martello pneumatico. Ha lavorato anche nella galleria del Bianco. E il suo datore di lavoro lo voleva sempre, perché, oltre a non tirarsi mai indietro, la sera teneva allegra la squadra. Col passare del tempo però la montagna per lui è diventata sempre più importante».
«In montagna sapeva dove mettere i piedi e non aveva mai fretta, per questo tutti andavano volentieri con lui. Diceva: “Le montagne non si muovono, stanno lì”. Quando lo salutavo perché partiva per una spedizione, a me veniva da piangere e lui mi abbracciava forte: “Mamma, prima venite te, i miei fratelli e tutti quelli che mi vogliono bene, io non rischio la vita per la montagna, perché la montagna ci sarà sempre, stai tranquilla. So bene che se mi succedesse qualcosa, ti lascerei un dolore enorme. E io gli rispondevo: “Bravo, il papà ti ha insegnato bene a fare l’alpinista”. Nelle spedizioni quante rinunce ha fatto. Quante volte ha rinunciato alle vette per soccorrere qualcuno, quante volte ha rinunciato a una cima per un amico. Alla fine, però, ha avuto la possibilità di fare quello che gli piaceva. In una delle ultime interviste ha detto: “Non piangete se mi capiterà qualcosa, sappiate che io ero in un posto dove volevo essere”. Era cosciente che sarebbe potuto capitare… Come diceva anche mio marito: “Piuttosto che morire in un ospedale per una malattia…”. Mario ci aveva raccomandato: “Se succedesse qualcosa di irreparabile non mandate nessuno a cercarmi, che mettiamo a rischio la vita degli altri”. Aveva visto tanti suoi compagni morire lassù».
«Il destino, invece, ha voluto che la tragedia capitasse qui, sopra casa. Pensarlo chissà dove in un ghiacciaio per me sarebbe stato un dolore ancora più grande. Almeno so come è morto e me l’hanno portato in casa. E però è stata una cosa crudele, anche perché non sapevo nulla e a darmi la notizia è stata una giornalista. Quella mattina ero sola e mi avevano chiamato quelli del soccorso della Croce Blu, io ero collegata col Beghelli, perché ho sempre sofferto di cuore. “Come va, signora?”. E io: “Bene, ma guardate che io non vi ho chiamato, cosa c’è”. E loro: “Stiamo provando se va bene il telefono, lei sta bene?”. “Sì, benissimo”. Passano pochi minuti e chiama una giornalista: “Signora, che cosa è successo lì a Lizzola?”. “Non so niente, non sono ancora uscita di casa, lei che cosa ha sentito?”. “Ho sentito che è accaduta una disgrazia”. “Ah sì? Quale disgrazia?” “Parlano addirittura dell’alpinista Merelli Mario che è caduto”. Mi è venuto un colpo, ho detto: “Ma sa che Merelli Mario è mio figlio?”. “Oh, scusi, allora ho sbagliato tutto”. Ho lasciato giù il telefono, ho fatto un urlo e mi sono trovata stesa sulla panca, svenuta. I miei figli li ha chiamati Zaffaroni, il più grande amico di Mario, e sono corsi su. Ero per terra e non riuscivo neanche ad aprire la porta. Il giorno dopo sono venuti dei giornalisti a scusarsi, ma non si fanno queste cose».
«Sono passati dieci anni dalla sua morte, ma Mario è vivo, talmente vivo che anche persone che non vedevamo da anni ci hanno scritto e telefonato in occasione dell’anniversario. «Ma davvero lei si ricorda ancora di Mario?». «Ma scherza? Non sa quanto Mario mi ha lasciato?». Gente che magari l’aveva visto una volta sola in una serata. C’è sempre qualcuno che lo rimpiange. Probabilmente ha lasciato qualcosa nel cuore delle persone, non tanto le sue imprese alpinistiche. Si ricordano delle sue mani, della sua voce, di come parlava e coinvolgeva chi lo stava ad ascoltare. Diceva: “Il bello è raccontarla, la montagna. Se non avessi qualcuno che mi ascolta, non andrei neanche. Che gusto c’è conquistare una cima senza poter abbracciare un amico?”. Alla fine di ogni serata chiedeva a sua sorella: “So stàt brao”?
In questi anni a Mario hanno dedicato molte cose: il rifugio Coca, una via a Terno d’Isola, la rosa dei venti al Bronzone, il palazzetto di Valbondione e il nuovo palazzetto delle scuole medie di Vertova, perfino un sentiero vicino a Salò. Gli sono rimasti legati in tanti, tanta la gente semplice, perché lui era uno semplice».
«Noi adesso coi due anni di pandemia abbiamo avuto il dispiacere grande di dover chiudere il Camoscio, lo viviamo un po’ come un tradimento di Mario, ma non si poteva più andare avanti. Mirella, la moglie, è tornata in Spagna. Quella donna è una stella. Ma anche in una situazione così difficile, lui avrebbe ripetuto la sua frase tipica: “L’importante è volersi bene, dopo tutte le cose si mettono a posto”. Quando non prenotava nessuno, Mirella si preoccupava e lui sdrammatizzava: “Non abbiamo mangiato anche oggi? Nel frigo abbiamo il necessario, che problema c’è?”. Aveva visto la povertà del Nepal e laggiù gli volevano un bene dell’anima. A Kathmandu lo conoscevano tutti, lo chiamavano tutti: Mario, Mario… Lui tornava in albergo e diceva a sua sorella: “Prendi questa roba e va là dietro, c’è una mamma con cinque bambini… sapeva dove erano i più poveri fra i poveri. E quando Raffaella andava nei negozi a comprare i souvenir le raccomandava: “Non prendere tutto da uno solo, eh”. Se c’erano dieci bancarelle, faceva acquisti in tutte e dieci. Andava per le montagne ma anche per quella povera gente. Con Zaffaroni aveva messo in piedi il Kalika Hospital. Il suo sogno, io l’ho sempre saputo, era andare a vivere in Nepal con Mirella. Mi diceva: “Mamma, andrò quando tu muori, ma sono convinta che sarebbe andato anche prima. E io l’avrei lasciato andare».
«Era un mammone, Mario, guai per sua mamma. Insieme eravamo “matocchi”, cantavamo, ballavamo. Dopo che ho perso mio marito la prima cosa che facevamo quando ci si alzava era accendere il giradischi. Era troppo bravo. Una mamma che ha un figlio così è felice per tutta la vita. Sul letto conservo le sue parole, gliele vado a prendere, guardi che cosa aveva scritto: “Grazie per tutto, cara mamma. Sei sempre la migliore! Ti voglio bene. Un bacio”. Da quel giorno tristissimo non ho mai smesso di piangere».
Articolo del Direttore Ettore Ongis per VALSeriana & Scalve Magazine estate 2022
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