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Pietre Vive

Le pietre coti della ValSeriana: a Pradalunga e Nembro sulle tracce di un’arte antica capace di affilare strumenti di lavoro e orizzonti di sviluppo.

A prima vista è una pietra comune, grigia, a grana fine ma ruvida. Basta però strofinarla su una lama metallica per conoscere il suo segreto e la sua preziosa attitudine: affilare (senza rovinarli) coltelli, forbici, lame di falci e falcetti. È la cote, pietra dotata di un potere abrasivo unico che deriva dalla combinazione di elementi specifici come i granuli duri di composizione silicea, le spicole delle spugne, e parti più tenere, la fanghiglia di composizione calcarea.

Il suo impiego risale a tempi antichissimi, tanto da essere già segnalata da Plinio il Vecchio nel Naturalis Historia nel I secolo avanti Cristo. L’eccezionalità dell’origine di questa pietra si associa oltre che alla storia, anche alla rarità: la roccia coltivata per la produzione delle pietre coti è limitata ad alcuni livelli spessi pochi centimetri che affiorano in alcune località della Bergamasca e soprattutto in bassa ValSeriana, a Pradalunga. Qui, le pietre venivano estratte in cave profonde fino a 100 metri e lavorate fino a creare una sagoma a losanga. Le coti erano indispensabili per i falciatori che le tenevano all’interno di un corno, un porta cote colmo d’acqua, appeso alla cintura.

Lo sviluppo di Pradalunga si deve a queste pietre, tanto che secondo molti il nome ricorda proprio la preda longa (pietra lunga) che qui veniva lavorata. Le pietre coti ebbero una forte diffusione non solo in Europa (la Germania fino alla Seconda guerra mondiale era uno dei maggiori importatori), ma anche nelle Americhe e in Australia. «Oltre a Pradalunga, i siti storici più importanti delle pietre coti tra il Settecento e l’Ottocento si trovavano a Palazzago, Albino, in Val Cavallina, a Zandobbio, Gandosso e Nembro», racconta Franco Nicefori, presidente de “La Pradalunga” associazione culturale fondata insieme a Maura Cassanelli, Sergio Chiesa, Marcella Ligato e Fausto Ghisleni proprio per salvaguardare storia e tradizione della pietra cote, promuovendo e diffondendo nel contempo il patrimonio culturale, storico e scientifico del territorio di Pradalunga.

Anche Nembro è stata per secoli territorio di produzione e commercializzazione delle coti e si caratterizzò come centro di lavorazione e di spedizione delle pietre alla volta dei paesi europei ed extraeuropei. Nell’Ottocento oltre mille persone erano occupate nelle diverse attività di lavorazione: gli uomini per escavazione, trasporto, cernita e taglio; le donne e i bambini si dedicavano alla levigazione della pietra. Con l’importante sviluppo dell’industria nell’Ottocento e l’insediamento di alcune industrie tessili nelle zone tra Bergamo e Clusone, i contadini abbandonarono man mano la terra per dedicarsi al lavoro operario nelle tessiture e nelle manifatture e anche le pietre coti subirono una crisi, che si acuì dopo la Seconda guerra mondiale. L’industria in pochi decenni avrebbe trasformato i paesi, soprattutto quelli della bassa ValSeriana: si abbandona l’attività agricola e l’uso di falce e pietra cote, si attivano profondi mutamenti sociologici. Il cotone diventa materia prima centrale per il lavoro della ValSeriana.

Giampiero Valoti

«A Nembro nel 1878 si installa la filatura di cotone di Benigno Crespi, – ricorda Giampiero Valoti, autore del libro “Una fabbrica e il suo paese, la filatura di cotone Crespi” – a lui si deve la creazione del villaggio operaio di Nembro e di un asilo quando ancora la legge non ne prevedeva l’istituzione. Sul territorio erano presenti molte altre industrie tessili, tra cui la Blumer, che hanno operato grazie ai capitali svizzeri che in quel periodo furono fondamentali per l’ampliamento dell’industria tessile». Oggi a raccontare la storia delle pietre coti restano il Laboratorio- Museo Pietre Coti di Pradalunga e il Mupic – Museo delle Pietre Coti di Nembro. Due “luoghi della memoria”, per non dimenticare.