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I Pinguini hanno preso il volo
Dal Festival di Sanremo ai vertici della Hit Parade: la storia di una band dal cuore seriano.
I Pinguini Tattici Nucleari non mi piacciono proprio! Per me l’unica rock band bergamasca (albinese) che merita attenzioni sono e saranno sempre i Verdena. Quei singoli stupidini ed enfatici non mi hanno mai fatto venire voglia di ascoltarli sul serio; poi quel nome così assurdo, da gruppetto liceale (è preso da una birra). Ci mancava la partecipazione trionfante a Sanremo, per farmeli odiare del tutto.
Ma lo sappiamo, solo gli stupidi non cambiano mai idea. A volte, la bellezza (e l’allegria che ne consegue) si scopre per dovere, per lavoro, o per un caso fortuito. E allora ho scoperto che c’è qualcosa di più dietro alla stupidera da band mascotte del politicamente corretto di matrice Rai.
Innanzitutto le persone. C’è un cocktail bergamasco niente male in questa comitiva di ragazzi nati tra il 1991 e 1994. Il cantante e compositore di testi e musiche, Riccardo Zanotti, è di Albino (Desenzano), la prima chitarra Lorenzo Pasini di Villa d’Ogna, l’altra chitarra Nicola Buttafuoco e il tastierista Elio Biffi sono di Pedrengo, il bassista Simone Pagani è di Bergamo, il batterista Matteo Locati di Arcene.
Di chiacchiere se ne sono scritte un’infinità, le comparsate in tivù sono regolari, il nome è una certezza, anzi, ora Zanotti (27 anni) produce le nuove leve della canzone bergamasca, se così si può dire. Ma forse conviene fare un salto indietro, tornare alla musica e ascoltarla davvero, come non va più tanto di moda fare. Passare disco per disco, canzone per canzone, scrutando i testi, con le orecchie tese per capire il segreto, se c’è, di questi giovanotti che hanno preso il volo.
Sono partito dall’inizio, dalle filastrocche de Il re è nudo, disco del 2014. Subito mi si è fatta incontro la verve del cantante e leader, che tra cantilene e passaggi quasi parlati riesce a sorprendere: Zanotti sa costruire un certo pathos, nell’attesa della parola di fine verso che faccia rima in modo più o meno ortodosso. Non sempre i mezzi sono all’altezza delle aspirazioni, ma la ricerca di un lessico nuovo per il linguaggio pop è evidente e apprezzabile. Qualcosa che ridia importanza a ciò che si canta, a costo di sfiorare il non-sense.
Testi come collage, un cilindro pieno di sorprese e nomi, giochi, cortocircuiti verbali. Vasco Brondi e Vasco Rossi, i Coldplay che suonano sempre gli stessi accordi, e via cantando. Voce filtrata da folletto blaterante che però nei suoi continui scherzi carnevaleschi (e le normali ingenuità
dell’età) sa consegnarci gentilmente qualche scintilla di senso e sentimento, pur tardoadolescenziale (“Quando avremo sfamato il più povero dei poveri / Allora abbandonerò la chitarra”).
Musichine tra il folk e il cantautorato nostrano, ben mescolate ad arguzie quasi-prog, come una versione carillon dei Genesis, con qualche assolo saporito. Gallerie di personaggi un po’ deformi, figurine dall’album di una giovinezza appassionata (da De André a Klaus Kinski), in cerca di una chiave di lettura per armonizzarli in un discorso che vorrebbe essere autoriale. Ci sono gli elementi chimici per il botto pop, ma manca ancora una reazione efficace per farli deflagrare.
Un notevole salto arriva con il secondo disco Diamo un calcio all’aldilà, e lo si sente subito. La produzione ruvida del brano d’apertura lascia ben sperare, accostata alle più triviali citazioni televisive (la famosa “borra” della Clerici). La tripletta iniziale è già un mezzo cappotto, tra svisate rock, melodie country in lingua inglese e un bell’assortimento di distorsioni e assoli, in accoppiata con i consueti scioglilingua di Zanotti, cadenze dolci che ci cullano ed escandescenze sempre un po’ cialtrone. Ancora non facile individuare il bandolo della matassa per quanto riguarda le parole, ma questa musica funziona a prescindere, il talento da hit è evidente. Perfetta la scheggia pokemon-punk di Sudowoodo, poi tocchi delicati, scariche di energia e qualche pungolo, fino alla grandeur del crescendo da stadio Le Gentil, ben innervata di distorsioni, saliscendi melodici e anche qualche parola più matura: “La paura ti definisce”. I ritmi reggae di Me Want Marò Back, venati di una simpaticissima polemica politica camuffata nelle
pieghe di una lingua mista, chiudono un disco davvero fresco.
Due lavori di sana gavetta (ma già sotto l’egida Sony), macinati rapidamente nel giro di un anno e mezzo. Il terzo (Gioventù brucata) arriva nel 2017 e la band inizia a raccogliere consensi anche fuori dai circuiti strettamente indie. Nell’estate suonano al festival Sziget, il singolo Irene fa breccia nelle radio durante la successiva estate. Il disco è un bel saggio di musica pop, agilissima, ma corroborata da una certa sapienza musicale che non può non destare attenzioni. Il saettare delle chitarre ormai non sorprende più, ma si conferma ad alti livelli, così come il genuino buongusto per gli arrangiamenti ricchi, ammalianti. Destano invece maggior sorpresa
certe atmosfere intense, cadenze rock irresistibili come quelle di Pula. Il non-sense reiterato nei testi alterna parti che sembrano puri riempitivi a momenti più semplicemente banali: il tentativo di rifare gli Elii in salsa un po’ parrocchiale (anche i siparietti parlati!), e tutti quei giochini di parole un po’ fine a se stessi (“Ponzio Pilates” etc.), non alletteranno sicuramente gli orecchi più esigenti. Gli altri, probabilmente non si preoccuperanno
nemmeno delle parole. Mancano degli spunti tematici davvero interessanti, e se a questo ci aggiungiamo il tentativo di essere sagaci… bè, meglio concentrarsi sulla musica. L’unico pezzo degno dei maestri della canzone
scorretta è Ninna nanna per genitori disattenti.
Poco male, ci piace perderci nel “pastiche” di stili che qui si amplia ulteriormente, nella cialtroneria come credo artistico, nei fraseggi poderosi di Gigi cinque ottavi: melodie alla Max Pezzali o cantilene sghembe, tempi dispari ed effetti sonori a piene mani. Fa capolino un citazionismo anche musicale (un assolo che richiama una canzone dance, mica male; e a seguire la chitarra acustica che rifà Smoke on the Water) che è sicuramente un messaggio d’amore alla fetta più colta del loro pubblico. È chiaro insomma, anche per i neofiti del gruppo (come me fino a poche settimane fa), cosa abbia portato questa band bergamasca alla ribalta nazionale. Nel 2019 arriva un titolo che è antifrasticamente antesignano di quel che sarà: Fuori dall’hype. Tutto l’armamentario stilistico si piega al servizio di canzoni meno rock, più spendibili nei panorami attuali. Verdura, Sashimi, melodie più agrodolci e suggestive, un pop speziato ma comunque confortevole anche per il pubblico generalista, una maturazione personale che rende credibile lo Zanotti in versione menestrello “romantico” ma sempre un po’ cialtrone. Ritmi ballabili (si veda il pezzo sanremese), la voce più sicura, qualcosa da dire, un vissuto più interessante da cantare. La quadratura del cerchio, sublimata un anno dopo al teatro Ariston.
E tutto il resto, più che cronaca, è già storia.
Articolo di Fabio Busi per
VALSeriana & Scalve Magazine – inverno 2021-2022
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